30 maggio



Giornata gloriosa, dopo acqua e pioggia e vento.
Capri a Maggio è d'incanto e l'atmosfera ,carica di elettricità per il maltempo del giorno prima, regalava lucentezza e nitore ad ogni particolare.
Anche la casa era sfavillante; gli argenti lucidi; piante di gardenie e vasi di fiori spumosi ovunque. Il loro profumo dolce, denso, lo sentivi anche negli angoli più nascosti, un profumo che ho ancora dentro, intatto, come fosse ora.
Le persone si agitavano, iperattive, ognuna a realizzare un compito preciso. Tutte allegre, appena un po' tese: umana reazione al piglio imperioso ed energico di mia madre che stava realizzando il "suo" di matrimonio ed aveva ben da fare a dislocare, man mano che arrivavano, regali e omaggi floreali, cibo, bevande, tavoli e bomboniere. Lei era la vera artefice e protagonista di quella giornata, ogni particolare doveva realizzarsi alla perfezione perché tutto doveva essere come lei l'aveva immaginato. Niente di fastoso ed eclatante; ogni cosa nel segno della più sapiente, raffinata e discreta eleganza....in fondo noi siamo gente veramente snob.
Mia zia me la ricordo stupenda e pronta alla lacrima appena mi intravedeva con il vestito bianco addosso. Mio fratello incredibilmente inteneriva lo sguardo a vedermi vestita così e poi sembrava compiaciuto del suo ruolo di testimone. Mia sorella splendida e seriosa nel suo abito di chiffon blu, c'era di buono che la sua bellezza non sfolgorava troppo....a scapito della mia!
Ida, la mia amica di sempre, era partecipe come gli altri, collaborava con mia madre, sorrideva a mio padre ma si accorgeva anche della mia tensione micidiale, mi parlava sottovoce, accondiscendeva alle mie richieste con atteggiamento obbediente, tentava di sciogliere il grumo d'ansia che mi prendeva lo stomaco come poteva.
Mio padre, l' aria soddisfatta e appagata, di chi sa che sta nel giusto, era semplicemente felice, e lo esprimeva nel suo modo tipico: un sorriso stupefatto e permanente che gli faceva un'espressione bambinesca, ingenua. Era l'unico momento, quando rideva, in cui lui mi appariva scoperto, esposto al mondo, fragile, quasi bisognoso di protezione e però si sentiva nel giusto. Di quel matrimonio penso intuisse la natura, della mia scelta forse condivideva il fine: mettere su famiglia, fare figli,una strategia molto efficace per ingabbiare e possibilmente annullare l'inquietudine, l'insoddisfazione, la indeterminazione di una vita che ancora non si era data una forma...... il matrimonio come compito morale. Mio padre era un essere profondamente etico, dal granitico rigore intellettuale, scettico nei confronti di quei cedimenti dell'anima con cui pure aveva convissuto e forse conviveva ancora. Erano cose che lui tendeva a liquidare cinicamente, forse un esorcismo da tentare su se stesso e sulla mia indole, per similitudine con lui e per natura propria incline ad una profonda malinconia .
E poi io: in quelle ore che precedevano la cerimonia, ero tesa di certo, ansiosa, avevo delegato tutto a tutti gli altri e non ricordo cosa mi passasse per la testa. Avevo un vestito particolarmente originale e ricercatissimo, corto, a trapezio, con un corpetto intessuto di infiniti piccoli fiori di stoffa, il velo che arrivava alle spalle, gonfio per i molti strati di cui era composto, cadeva in avanti, a velarmi il viso. Pesavo 50 chili!!!!
Dopo fu molto bello, questo si che me lo ricordo.....eravamo tutti rilassati e contenti, euforici quasi...un matrimonio allegrissimo e divertente. Pochi amici, i più intimi, e i parenti, tutti. La famiglia come marchio indelebile dell'appartenenza ad un clan esclusivo, come doveva essere il nostro e solo il nostro. Mio zio Mario, che lesse in chiesa il cantico dei cantici modificandolo all'impronta perchè la traduzione non gli piaceva creò un senso di attesa e di accadimento incredibile e poi a casa  naturalmente diede i numeri sigillando la serata con uno dei suoi monologhi memorabili. Stefano, giovanissimo, allegro come sempre, innamoratissimo e forse poco consapevole, era felice, molto.
Oggi sono 20 anni da quel giorno.....

Ninna nanna

      
      Era successo nella mattinata e ce lo comunicavano con una telefonata. Chiesero di mio padre e glielo dissero così, per telefono, che era morto Gigi, suo nipote; che c'era stato un incidente, in mare e che i genitori erano introvabili. Lo vidi accasciarsi sul divano e  comparirgli in faccia un sorriso stonato, come se il cervello si fosse d’un tratto rappreso, bloccandosi. Sorriso da ebete l’avrei detto, se non fosse che mi pareva di leggere tra le movenze del volto, arrossatosi all’improvviso, il farsi largo di un'altra espressione, una specie di imbarazzo, forse vergogna per quella cosa oscena che significava la morte di un ragazzo di diciannove anni. Mio zio e mio padre arrivarono alla sala mortuaria dell'ospedale nel pomeriggio: la porta era spalancata e il medico li aspettava nell'anticamera.. La stanza era enorme, con il soffitto altissimo. Un'unica finestra ovale sulla parete opposta all’entrata lasciava filtrare un fascio di luce, sferica, corpuscolare.Il cono luminoso cadeva giusto nel mezzo dei due tavoli presenti nell’obitorio, così che questi ne ricavavano soltanto un riflesso, preservandosi nell’ombra, quasi a voler mantenere quella scena in un’ottusa necessità di riserbo. Sui due tavoli mio cugino e un bambino, che non aveva più di quattro o cinque anni.

Per il gioco di luce, forse, quei corpi, nonostante l’estate, apparivano candidi nel loro biancore, corpi giovani e perfetti nelle proporzioni.
Mio cugino, in costume, i capelli bagnati, si mostrava in tutto il suo splendore di atleta, la muscolatura scolpita, il ventre all’indentro e il torace gonfio come a trattenere il fiato per un ultimo tuffo. Il volto immobile sembrava concentrato e quel corpo si restituiva a loro assolutamente inviolato: nessun segno di ferite, lividi o abrasioni, neanche tracce di sangue, lavate dal mare: insomma a vederlo li disteso non si riusciva a cogliere traccia dell’ incidente.
La posizione supina aveva creato l'artificio. Lo scafo della barca in effetti gli era passato sulla schiena. Lo aveva colpito e scavato solo da dietro, squarciandogli il dorso e la nuca proprio mentre cercava di saltare in acqua, e la morte, beffarda, era venuta così a fissare quell’ultimo guizzo atletico, lasciandogli intatto il suo bell’aspetto di sempre.
Il bambino era dal lato opposto, lineamenti angelici dentro una corona di riccioli biondi. Le sue forme composte e minute rimpicciolivano ancora di più a paragone con lo slancio e la potenza del corpo di Gigi. La stessa squallida immensità della sala e quel tavolo asettico dove era stato adagiato, accentuavano lo stridere di proporzioni. Per lui non c’era nessuno né si poteva capire come fosse morto.L’impressione era che stesse dormendo di un sonno tranquillo.

Mio padre osservava quella scena con la sensazione di trovarsi su un altro pianeta.Tutto era così irreale, impossibile credere che quei due corpi fossero freddi e probabilmente già irrigiditi, così che non osava oltrepassare la soglia, come se entrare li dentro avesse potuto rompere un incantesimo.
Si accorse solo dopo un pò che suo cognato aveva preso a muoversi ma, incredibilmente, invece che verso il figlio, quasi di slancio di era diretto dall’altra parte, verso il tavolo del bambino. Lo vide chinarsi su quel corpicino immobile e gli sembrò che cominciasse  delicatamente a carezzarlo, anzi pareva proprio tutto concentrato a sussurrargli qualcosa all’orecchio. Il senso delle parole, quasi fosse una cantilena, a mio padre risultava incomprensibile ma a poco a poco quel balbettio si spense e giunse il pianto a squassargli il respiro.   Poi con un filo di voce mio zio riprese a cantilenare e, allargate le braccia, strinse al petto quel figlio non suo e dolcemente, a ritmo lento, se lo cullò.

articolo 11

"Quando io adopero una parola -disse Humpty Dumpty con un tono pittosto sdegnoso- essa ha esattamente il significato che io le voglio dare (....). Nè più nè meno."
"Bisogna vedere- disse Alice- se voi potete fare in modo che le parole indichino cose diverse."
"Bisogna vedere - disse Humpty Dumpty- chi è che comanda (....) ecco tutto."


L.Carroll


nowar

Mi chiedo a cosa serva la filosofia se non è immediatamente critica radicale

di Alain Badiou


Sì, caro Jean-Luc (Nancy), la posizione che adotti a favore dell’intervento “occidentale” in Libia è stata una triste sorpresa per me.
Non ti sei reso conto fin dall’inizio della palpabile differenza tra gli avvenimenti in Libia e ciò che succedeva altrove? Come, sia in Tunisia che in Egitto, abbiamo davvero visto grandi mobilitazioni popolari, mentre in Libia non c’è nulla di simile? Un mio amico arabista si è dedicato nelle ultime settimane a tradurre i manifesti, le insegne, i cartelli e le bandiere che avevano caratterizzato le manifestazioni tunisine ed egiziane: non ha potuto trovare un solo esempio di tutto ciò in Libia, neanche a Bengasi. Una delle cose che colpisce di più dei “ribelli” libici – che sono sorpreso tu non abbia notato – è che non si vede nemmeno una donna, mentre in Tunisia ed Egitto erano molto visibili. Non sai che i servizi segreti francesi e britannici stavano organizzando la caduta di Gheddafi dallo scorso autunno? Non sei sorpreso che, differentemente che in tutti gli altri sollevamenti arabi, in Libia siano venute fuori armi di provenienza sconosciuta? Che bande di giovani hanno subito cominciato a sparare raffiche in aria, qualcosa di inconcepibile negli altri luoghi? Non ti colpisce l’emergere di un presunto “consiglio rivoluzionario” guidato da un ex complice di Gheddafi, mentre da nessun’altra parte c’è stata la possibilità per le masse di scegliere persone per un nuovo governo?
Non capisci come tutti questi dettagli, e molti altri, si accompagnano col fatto che qui, e da nessun’altra parte, sono state chiamate in aiuto le grandi potenze? Che canaglie come Sarkozy e Cameron, i cui obiettivi sono chiaramente sciagurati, sono applaudite e osannate – e tu improvvisamente gli vai in soccorso. Non è lampante che la Libia ha offerto la possibilità di entrare a queste potenze, in una situazione che dovunque è scappata loro dalle mani? E che il loro obiettivo, chiarissimo e più che “classico”, era trasformare una rivoluzione in una guerra, mettendo la popolazione fuori gioco e aprendo la strada alle armi e agli eserciti, per quelle risorse che sono monopolizzate da queste potenze? Questo processo si dipana ogni giorno dinanzi ai tuoi occhi, e tu lo approvi? Non ti accorgi come, dopo il terrore dal cielo, saranno offerte armi pesanti per le operazioni a terra, insieme con istruttori militari, veicoli corazzati, strateghi, consiglieri e caschi blu, e che in questo modo comincerà la riconquista (si spera complicata e non definitiva) del mondo arabo per mano del dominio del capitale e dei suoi stati vassalli?
Come puoi tu, tra tutte le persone, cadere in questa trappola? Come puoi accettare qualsiasi tipo di missione “salvifica” affidata a quelle stesse persone per le quali la vecchia situazione era positiva, e che vogliono assolutamente tornare indietro, con mezzi violenti, per questioni di petrolio ed egemonia? Puoi accettare così semplicemente l’ombrello “umanitario”, l’osceno ricatto in nome delle vittime? Le nostre armi uccidono più gente in più paesi di quelle che sarebbe capace di ammazzare il dittatore locale Gheddafi nel suo paese. Cos’è questa fiducia improvvisamente accordata ai più grandi macellai dell’umanità contemporanea, a quelli colpevoli del mondo con cui abbiamo familiarità? Tu credi – puoi credere – che rappresentino la “civiltà”, che le loro mostruose armi possano essere strumenti di giustizia? Sono stupefatto, devo ammetterlo. Mi chiedo a cosa serva la filosofia se non è immediatamente critica radicale di questo tipo di opinioni incoscienti, che la propaganda di regime riesce a mettere nelle nostre menti e a far passare come nostre, che le ribellioni popolari nelle regioni che ritengono strategiche hanno messi sulla difensiva e che sono alla ricerca della vendetta.
Nel tuo testo dici che “dopo” spetterà a “noi” (ma chi è questo “noi”, se oggi include Sarkozy, Bernard-Henri Lévy, i nostri bombardieri e i loro sostenitori?) assicurarci che non si torni indietro rispetto a contratti petroliferi e militari. Perché “dopo”? è ora che dobbiamo assicurarcene, fermando le grandi potenze, per quello che possiamo, dall’interferire nei processi politici in atto nel mondo arabo. Facendo tutto questo è possibile che queste potenze non possano reintrodurre – sotto il deteriorato nome della “democrazia”, della morale e dei pretesti “umanitari” che hanno sempre usato fin dalla prima conquista coloniale – contratti petroliferi e altri accordi, che sono gli unici accordi che interessano questi stati.
Caro Jean-Luc, in tali circostanze, per te o per me, non ha senso essere d’accordo con la regola del “Western consensus” che dice: “dobbiamo assolutamente rimanere in attesa di qualunque cosa accada”. Dobbiamo sollevarci contro questa regola e dimostrare che il vero obiettivo dei bombardieri e dei soldati occidentali non è in alcun modo lo spregevole Gheddafi, un ex cliente di quelli che ora si stanno sbarazzando di lui alla luce di interessi più grandi. L’obiettivo dei bombardieri è la ribellione popolare in Egitto e la rivoluzione in Tunisia, il loro carattere inaspettato ed intollerabile, la loro autonomia politica, in una parola: la loro indipendenza. Opporsi agli interventi distruttivi delle potenze significa sostenere l’indipendenza politica ed il futuro di queste ribellioni e di queste rivoluzioni. Questo è qualcosa che possiamo fare, ed è un imperativo assoluto.
Saluti amichevoli, Alain

Segni




Se c'è qualcuno che mi ama, sulla Terra o tra le stelle,
Dovrebbe immediatamente darmi un segnale.
Sento avvicinarsi il disastro

La ricerca della felicità- M. Houellebecq

Godi !

" Il carattere epocale di una figura come quella di Silivio Berlusconi,  non consiste ovviamente nell'azione di governo che ha caratterizzato la sua missione politica, ma nel come la sua persona abbia suggellato paradigmaticamente questa equivalenza ipermoderna tra  Legge e  godimento. Non solo i suoi cosiddetti comportamenti privati,  ma in modo assai più emblematico, la sua stessa azione legislativa, svelano come il massimo rappresentante della vita dello Stato miri alla realizzazione del proprio godimento situato non come capriccio estemporaneo ma come il diritto inscritto nella funzione istituzionale che egli ricopre. Mentre l'epoca dominata dalle figure di De Gasperi o di Berlinguer appariva caratterizzata da una tensione etica tra Legge e desiderio ancora edipica (si pensi  alla politica dell'austerità teorizzata negli anni Settanta da Berlinguer), l'azione di Berlusconi appare totalmente svincolata da questo dissidio. Non c'è vergogna, senso di colpa, senso del limite appunto, perchè non c'è senso della Legge disgiunto da quello del godimento, perchè il luogo della Legge coincide propriamente con quello del desiderio. Tutto è apertamente (perversamente) giocato come se non esistesse castrazione. La figura del capo del governo riabilita così i fantasmi del Padre  freudiano dell'orda, del Padre che ha diritto di godere di tutte le donne, del Padre bionico, immortale, inscalfibile, osceno e inattaccabile, non come limite al godimento (è il volto ancora rassicurante dei Padri della nostra prima Repubblica), ma come esercizio illimitato del godimento. In questo la figura di Berlusconi fa davvero epoca."


Massimo Recalcati, L'uomo senza inconscio



                                          Bill Viola

Quando si tratta di godimento si comincia con il solletico e si finisce arsi vivi con la benzina
Jacques Lacan

Storie

Louise Bourgeois  Maman




Non so se  le vicende familiari si assomigliano, se tutte per esempio sono fatte di legami, fili che si annodano e si spezzano, nascite, morti,  i matrimoni e i funerali, i vecchi e i giovani, i bambini. Storie  insomma che però non vivono di vita propria, hanno bisogno di qualcuno che le raccolga e le faccia andare da generazione a generazione, si che ad ogni passaggio, pezzo dopo pezzo, esse si ricompongano in una unica linea continua che va da un punto molto lontano conservato nella  memoria di qualcuno ad un altro punto racchiuso nell’esistenza di qualcun altro.

Io in quella poltrona ci andavo larga e mi riusciva bene di sprofondarci proprio dentro, tanto da scomparirvi. Mi mettevo silenziosa ad ascoltare le parole che risuonavano per la stanza e così nascosta mi pareva di passare inosservata.
Mi piaceva ascoltare i grandi che raccontavano le loro storie, mi piaceva  la loro animazione e mi incantava il gesticolare di mia madre, elegante e morbido nel movimento delle mani.
Era incredibile come apparisse diversa in queste occasioni; la sua bellezza armoniosa e lucente emanava un  fascino che si materializzava, letteralmente. Era una presenza teatrale la sua, nel senso che appena la conversazione le dava l’appiglio, lei lo riempiva tutto quel piccolo palcoscenico casalingo.
 Nel suo parlare, a volte fuori le righe, serpeggiava un non so che di poetico, un elemento immaginifico, una vera e propria resistenza al puro dato di fatto, che lei si rifiutava di restituire così com’era, bisognava che lo manipolasse, che lo forzasse, che lo vivificasse.
Poi aveva un vezzo, che consisteva nel descrivere con precisione fotografica, all’inizio di ogni racconto, il modo in cui era vestita in quella determinata occasione. Questo ricordare attraverso un abito, delle scarpe o quel particolare impermeabile, condensava al meglio la sua più intima essenza, cosi che lei trasformava se stessa nella propria rappresentazione scenica.

Anche mio padre catturava l’attenzione ma per la qualità dei suoi racconti. Ricordo che si creava una tale aspettativa intorno alle sue parole, che ogni sua frase aveva la forza di una verità incontrovertibile e io trattenevo il fiato per paura di rompere l’incanto.
Lui raccontava degli uomini e del mondo, ma lo affascinavano le idee. Diceva sempre che per risolvere la vita di un essere umano bastava una sola idea, che non avesse già una paternità e il senso di tutta una esistenza si sarebbe chiarito.
 Non so se l’avesse mai cercata quell’idea, non so con che determinazione si fosse messo all’opera, e se un senso di frustrazione lo prendeva di fronte alla consapevolezza che lui forse era di tutt’altra stoffa.
Nonostante fossi molto piccola,  intuivo in lui un tratto del carattere, che sarebbe poi stato il mio; era un segno che allora  riuscivo a percepire solo come abbozzo e il più delle volte c’era  bisogno di correggere il fuoco, perché era una caratteristica che tendeva a ritrarsi, sbiadiva.
In lui insomma si dispiegava la voglia dell’inessenziale. Lui era fatto di  quella foggia d’uomo che va per particolari,  a ricercare  la traccia di un contorno, più che l’evidenza di un  contenuto.
E devo ammettere che pochi ne ho poi incontrati di uomini così, fatti di stoffa tanto rara, anzi i  più neanche la capiscono questa necessità di svicolare dalla via maestra, la considerano una avvisaglia di infermità. Per me invece è un segno di ragionata inquietudine: sempre a disporsi come tangente alla perfetta curvatura  del mondo. Dove tutto torna, loro vedono la contraddizione, la somma dispari, basta un dettaglio perchè tutto cambi di  coloritura.
 Forse mio padre era un vero sognatore, di quelli che il mondo se lo costruiscono sotto o sopra o in parallelo al piano della propria quotidianità  e se lo curano con attenzione maniacale e dedizione: bisogna votarsi seriamente ai propri sogni.
Chissà se lui lo sapeva.

Corpi




Danzò tra le linee della notte
segnando di sè l'oscurità.
Brevi pause nei suoi gesti ruppero il ritmo teso dell'esistenza.
E insieme alla notte attese i ricordi.
Giunsero,
lenti,
a riempire i silenzi distesi alle sue spalle.

tempo


































"Il tempo - così disse Austerlitz nell' Osservatorio di Greenwich- è, fra tutte le nostre invenzioni, senz'altro la più artificiosa e, nel suo essere vincolata ai pianeti che ruotano intorno al proprio asse, non meno arbitraria di quanto lo sarebbe ad esempio un calcolo basato sulla crescita degli alberi o sul periodo impiegato da una pietra calcarea per disgregarsi, a prescindere poi dal fatto che il giorno solare, in base al quale ci regoliamo, non fornisce una misura esatta, sicchè noi, anche al fine di calcolare il tempo, siamo stati costretti a escogitare un immaginario sole medio, la cui velocità di rotazione non cambia e che, nella sua orbita, non è inclinato verso l'equatore. Se Newton riteneva,- disse Austerlitz- e intanto indicava attraverso la finestra l'ansa del fiume che, luccicante nell'ultimo riverbero del giorno, abbracciava la cosidetta Isola dei cani-, se davvero Newton riteneva che il tempo fosse un fiume come il Tamigi, dov'è allora la sorgente del tempo e in quale mare esso sfocia alla fine? Un fiume, come ben sappiamo, ha sempre e nessariamente un limite su entrambi i lati. Ma quali sarebbero in questa prospettiva  le sponde del tempo? Quali sarebbero le sue proprietà specifiche, tali da corrispondere più o meno a quelle dell'acqua, che è liquida, piuttosto pesante e trasparente? Come si distinguono gli oggetti immersi nel tempo da quelli che non ne sono mai stati toccati? Che cosa significa che le ore di luce e quelle dell'oscurità sono segnate sulla medesima circonferenza? Perchè in un certo luogo il tempo è eternamente immobile e in un altro luogo scorre veloce e incalzante? Non si potrebbe sostenere, disse Austerlitz, che il tempo stesso, per i secoli e i millenni, è rimasto asincronico? In definitiva non è poi da molto che si sta espandendso dappertutto. E d'altronde in parecchie regioni della terra, la vita degli uomini non viene forse regolata ancora oggi, più che dal tempo, dai fenomeni atmosferici e quindi da una grandezza non quantificabile, che non conosce la regolarità lineare, non avanza costantemente, ma si muove a spirale, determinata da ristagni e irruzioni, che si ripresenta di continuo in forma mutata e nel suo sviluppo nessuno sa dove si diriga? L'essere-fuori-dal-tempo -disse Austerlitz-, che sino a pochi anni fa valeva per le zone arretrate e dimenticate nel proprio paese più o meno come in passato era valso per i continenti transoceanici non ancora scoperti, è tuttora valido persino in una metropoli fondata sul trempo come Londra. I morti, d'altronde, sono fuori dal tempo al pari dei morenti e di tutti i malati costretti a letto in casa o negli ospedali, e non soltanto loro, basta già un certo grado di infelicità personale per tagliarci fuori da qualsiasi passato e da qualsiasi futuro. Io in effetti, disse Austerlitz, non ho mai posseduto nessun tipo di orologio nè una pendola nè una sveglia nè un orologio da tasca e nemmeno uno da polso. Un orologio mi è sempre sembrato qualcosa di ridicolo, qualcosa di mendace per antonomasia, forse perchè per un impulso interiore, a me stesso incomprensibile, mi sono sempre ribellato al potere del tempo escludendomi dai cosidetti eventi temporali, nella speranza -come penso oggi, disse Austerlitz- che il tempo non passasse, non fosse passato o, per meglio dire, che tutti i punti temporali potessero esistere simultaneamente gli uni accanto agli altri, cioè che nulla di quanto racconta la storia sia vero, che quanto è avvenuto  non sia ancora avvenuto, ma stia appunto accadendo nell'istante in cui noi ci pensiamo, il che naturalmente dischiude la desolante prospettiva di una miseria imperitura e di una sofferenza senza fine." 


W.G Sebald  "Austerlitz"



Julian Barbour

Tutti a dire della rabbia del fiume in piena... e nessuno della violenza degli argini che lo costringono.

Bertolt Brecht

la forza e la potenza



La fortezza è potenza, ed è insieme pazienza.
 Chi è forte sopporta perchè riconduce nell'ambito della propria iniziativa ciò che per altro verso è costretto a subire.
Ma ciò a cui l'uomo non può sfuggire, ciò che deve inevitabilmente subire, è la propria morte. E non tanto quella che giunge alla fine, quanto piuttosto le molte morti che attraversano le nostre vite: la salute malferma, gli amori perduti, i bersagli mancati.
Per prendere su di sé il proprio limite, c'è bisogno di forza: questa forza feconda è virtù.
Gli uomini spesso esercitano e subiscono la forza ma non la esercitano come virtù, non la fanno valere come risorsa. Questa è una delle ragoni per cui dilaga la violenza. La violenza  spesso scaturisce dall'impotenza. Si rovescia sugli altri la propria morte, ritenendo con ciò di allontanarla da sé.
La fortezza è la virtù che non ignora il limite. Essa non teme e per questo aiuta. La generosità, in effetti, è una determinazione della fortezza. Diceva Spinoza :" per Generosità intendo la Cupidità con cui ciascuno si sforza.....di aiutare gli altri uomini e di unirli a sé in amicizia"

Tutto ciò che esiste, esiste perchè è dotato della potenza di esistere. Questa potenza Spinoza la chiama  conatus.
Conatus è :"lo sforzo con cui ciascuna cosa si sforza di perseverare nel suo essere", in una parola, di durare.
Nietzsche perfeziona l'idea di Spinoza dicendo che la potenza che ogni cosa ha di esistere, non risiede nell'energia sufficiente a durare, ma nella più ampia capacità di espandersi. Ogni uomo per quel tanto che esiste e fino a che esiste, è una puntuazione di forza. Ma proprio per questo, in quanto punti di forza, non siamo dotati di una potenza illimitata. La nostra quantità di energia è finita. Per questo moriamo.
La  potenza di cui siamo dotati è sufficiente a farci esistere ma non ci è nota la quantità di cui siamo costituiti.
In ragione di ciò accade spesso che l'energia che ci muove prevale sulla cognizione che possediamo di essa. Tutto ciò non è difficile da comprendere, se  si considera la dinamica pulsionale. L'irrefrenabile voglia dell'oltre, fino a sconfinare. La pulsione cerca in ogni modo la soddisfazione. Patiamo il desiderio fino a morirne. L'Eros ne è la cifra. E' tanto più significativo quanto più è involontario. La passione e l'amore sessuale, sensuale, sentimentale che sia, ne è il pieno disvelamento.
Siamo travolti da noi stessi. Non avendo cognizione della nostra forza riteniamo che sia inesauribile: voliamo sulle ali del desiderio e ci riteniamo infiniti, divini.


........gli uomini non riescono a vivere bene perchè sono malati di infinito. Come guarire da questa malattia se non comprendendo che la malattia è l'infinito?
Noi ignioriamo la potenza che siamo. Una cosa però è sicura: non ci è in alcun modo concesso di essere più di ciò che possiamo. E allora? Tocca metterci in pari con noi stessi......e stare in equilibrio.
 Se ne saremo capaci anche il profumo di un fiore potrebbe valere la gioia di un'eternità

Salvatore Natoli



guazzabuglio

Andò a letto stanca, come al solito, ma sapeva che il sonno avrebbe tardato a insinuarsi tra le palpebre.
Era il momento più consolatorio della giornata quello, metteva un punto al susseguirsi sempre uguale di fatti: scuola, pranzo, figli, spesa. E sempre accadeva che prima di addormentarsi lei si perdesse ad elencare tutti quegli altri fatti che per un elemento imprevedibile o per un fuori tempo non avevano preso vita, così che l’ennesima giornata era passata, compatta e chiusa nel suo ritmo di obblighi e doveri.
Però la notte avrebbe rimescolato le carte, lo sapeva bene, succedeva sempre così, e tutte le occasioni perse si mutavano in concretissimi squarci di realtà, che lei, esperta nel truccare la vita, legava e annodava mille volte in mille forme diverse. Rinunciare a questa abitudine, divenuta una seconda natura? Impossibile sperare in qualche resistenza efficace a tale turbinio immaginoso.
Non che lei non provasse a forzarli gli eventi, anzi, ma questi non assumevano mai la giusta angolatura.
Per esempio si studiava di accendere curiosità in qualche suo interlocutore occasionale, provando una frase ad effetto(quelle caustiche erano le sue migliori) ma stava attenta a colorare la voce con una morbida modulazione e anche l’incrinatura del capo aveva la sua utilità, mostrava disponibilità ed apertura. La schiusa degli occhi poi il più possibile invitante e seduttiva. Insomma un bel pieno di contrasti.
Il gioco però non produceva gli effetti sperati, per qualche nonnulla tutta quest’arte si decomponeva e non lasciava tracce, così che bisognava ricominciare daccapo e la voglia era già sfumata.
Anche con gli alunni era ogni giorno una attesa di accadimenti. Ponendo una domanda spiazzante, nutrendo dubbi, non spianava mai la via alle soluzioni evidenti, quelle facili, ma li faceva andare a briglia sciolta, sfrenava i loro ragionamenti. Il più delle volte però succedeva che questi si sfinivano e si intricavano, lei allora non faceva a tempo ad assumere il ruolo agognato del nocchiero, o meglio del burattinaio: tutti quei fili ingarbugliati, bisognosi di una mano esperta e capace di imprimere il comando, si afflosciavano, miseri nella perdita di tensione. E il sentimento era di un’altra occasione perduta.
Invece a fare andare la sua fantasia le cose si ricomponevano, gli inizi incompiuti si dispiegavano, maturavano, così che il suo desiderio si adagiava nella sua propria orma, riempiendo spazi e fissandosi nei giusti contorni. Questo era l’andamento della sua vita, fatto di vuoti e pieni. Certo l’alternanza era frustrante, mai che si riuscisse a fissare qualcosa per quello che era.
Si chiedeva spesso cosa risultasse più faticoso: i tentativi sfiatati del giorno o il lavorio turbinoso della notte, e l’indecisione spadroneggiava, sempre.

Malinconia

 





E questi ultimi anni, io li ho spezzati e disfatti, disertando la fabbrica del tempo, ogni volta che i suoi ritmi prescritti mi sbigottivano, nella loro eternità numerata. Alla mia assenza, gli orologi del mondo saltavano, e le giornate si sfogliavano in disordine come truccioli di una pialla sconnessa. Mi ridestavo da un sonno di più giorni, supponendo di essermi addormentato la sera prima ......Certo mentre io dormivo - i corpi miracolosi - avranno rifatto alle nuove stagioni, la loro muta, per gli appuntamenti dell'amore. Ma il mio corpo si è consegnato nei sonni alla vecchiaia . . . . . . il futuro fugge all'indietro,il passato viene incontro. E in questa anarchia falotica, di là dalle croci dei giorni, c'è lei che mi aspetta, coi suoi primi baci
E.Morante

 
La profondità appartiene soprattutto all'uomo triste. Si tratta di una costituzione quasi patologica in cui ogni cosa, per quanto insignificante, mancando ad essa il rapporto naturale e creativo, appare come cifra di una saggezza enigmatica. Cosi, nella Malinconia di Durer "gli utensili della vita giacciono inutilizzati al suolo, come oggetto di un puro elucubrare
La costituzione malinconica è interamente consegnata alla natura poichè ogni saggezza del malinconico appartiene al profondo ,ed è ottenuta nell'immersione nella vita delle cose creaturali, mentre nulla perviene ad essa della voce della rivelazione. Le aspirazioni della madreterra tralucono al malinconico dalla notte del suo elucubrare come tesori dall'interno della terra;ogni intuizione fulminea gli è estranea. La malinconia, fedele alle cose ma non agli uomini, tradisce il mondo per il sapere.

W.Benjamin

Nuvole





















"Poiché mai esperienze furono più radicalmente smentite di quelle strategiche dalla guerra di posizione, di quelle economiche dall’inflazione, di quelle morali dai detentori del potere. Una generazione che era andata a scuola col tram a cavalli, si trovava, sotto il cielo aperto, in una paesaggio in cui nulla era rimasto immutato fuorché le nuvole, e sotto di esse, in un campo magnetico di correnti ed esplosioni micidiali, il minuto e fragile corpo dell’uomo».

Walter Benjamin