30 maggio



Giornata gloriosa, dopo acqua e pioggia e vento.
Capri a Maggio è d'incanto e l'atmosfera ,carica di elettricità per il maltempo del giorno prima, regalava lucentezza e nitore ad ogni particolare.
Anche la casa era sfavillante; gli argenti lucidi; piante di gardenie e vasi di fiori spumosi ovunque. Il loro profumo dolce, denso, lo sentivi anche negli angoli più nascosti, un profumo che ho ancora dentro, intatto, come fosse ora.
Le persone si agitavano, iperattive, ognuna a realizzare un compito preciso. Tutte allegre, appena un po' tese: umana reazione al piglio imperioso ed energico di mia madre che stava realizzando il "suo" di matrimonio ed aveva ben da fare a dislocare, man mano che arrivavano, regali e omaggi floreali, cibo, bevande, tavoli e bomboniere. Lei era la vera artefice e protagonista di quella giornata, ogni particolare doveva realizzarsi alla perfezione perché tutto doveva essere come lei l'aveva immaginato. Niente di fastoso ed eclatante; ogni cosa nel segno della più sapiente, raffinata e discreta eleganza....in fondo noi siamo gente veramente snob.
Mia zia me la ricordo stupenda e pronta alla lacrima appena mi intravedeva con il vestito bianco addosso. Mio fratello incredibilmente inteneriva lo sguardo a vedermi vestita così e poi sembrava compiaciuto del suo ruolo di testimone. Mia sorella splendida e seriosa nel suo abito di chiffon blu, c'era di buono che la sua bellezza non sfolgorava troppo....a scapito della mia!
Ida, la mia amica di sempre, era partecipe come gli altri, collaborava con mia madre, sorrideva a mio padre ma si accorgeva anche della mia tensione micidiale, mi parlava sottovoce, accondiscendeva alle mie richieste con atteggiamento obbediente, tentava di sciogliere il grumo d'ansia che mi prendeva lo stomaco come poteva.
Mio padre, l' aria soddisfatta e appagata, di chi sa che sta nel giusto, era semplicemente felice, e lo esprimeva nel suo modo tipico: un sorriso stupefatto e permanente che gli faceva un'espressione bambinesca, ingenua. Era l'unico momento, quando rideva, in cui lui mi appariva scoperto, esposto al mondo, fragile, quasi bisognoso di protezione e però si sentiva nel giusto. Di quel matrimonio penso intuisse la natura, della mia scelta forse condivideva il fine: mettere su famiglia, fare figli,una strategia molto efficace per ingabbiare e possibilmente annullare l'inquietudine, l'insoddisfazione, la indeterminazione di una vita che ancora non si era data una forma...... il matrimonio come compito morale. Mio padre era un essere profondamente etico, dal granitico rigore intellettuale, scettico nei confronti di quei cedimenti dell'anima con cui pure aveva convissuto e forse conviveva ancora. Erano cose che lui tendeva a liquidare cinicamente, forse un esorcismo da tentare su se stesso e sulla mia indole, per similitudine con lui e per natura propria incline ad una profonda malinconia .
E poi io: in quelle ore che precedevano la cerimonia, ero tesa di certo, ansiosa, avevo delegato tutto a tutti gli altri e non ricordo cosa mi passasse per la testa. Avevo un vestito particolarmente originale e ricercatissimo, corto, a trapezio, con un corpetto intessuto di infiniti piccoli fiori di stoffa, il velo che arrivava alle spalle, gonfio per i molti strati di cui era composto, cadeva in avanti, a velarmi il viso. Pesavo 50 chili!!!!
Dopo fu molto bello, questo si che me lo ricordo.....eravamo tutti rilassati e contenti, euforici quasi...un matrimonio allegrissimo e divertente. Pochi amici, i più intimi, e i parenti, tutti. La famiglia come marchio indelebile dell'appartenenza ad un clan esclusivo, come doveva essere il nostro e solo il nostro. Mio zio Mario, che lesse in chiesa il cantico dei cantici modificandolo all'impronta perchè la traduzione non gli piaceva creò un senso di attesa e di accadimento incredibile e poi a casa  naturalmente diede i numeri sigillando la serata con uno dei suoi monologhi memorabili. Stefano, giovanissimo, allegro come sempre, innamoratissimo e forse poco consapevole, era felice, molto.
Oggi sono 20 anni da quel giorno.....

Ninna nanna

      
      Era successo nella mattinata e ce lo comunicavano con una telefonata. Chiesero di mio padre e glielo dissero così, per telefono, che era morto Gigi, suo nipote; che c'era stato un incidente, in mare e che i genitori erano introvabili. Lo vidi accasciarsi sul divano e  comparirgli in faccia un sorriso stonato, come se il cervello si fosse d’un tratto rappreso, bloccandosi. Sorriso da ebete l’avrei detto, se non fosse che mi pareva di leggere tra le movenze del volto, arrossatosi all’improvviso, il farsi largo di un'altra espressione, una specie di imbarazzo, forse vergogna per quella cosa oscena che significava la morte di un ragazzo di diciannove anni. Mio zio e mio padre arrivarono alla sala mortuaria dell'ospedale nel pomeriggio: la porta era spalancata e il medico li aspettava nell'anticamera.. La stanza era enorme, con il soffitto altissimo. Un'unica finestra ovale sulla parete opposta all’entrata lasciava filtrare un fascio di luce, sferica, corpuscolare.Il cono luminoso cadeva giusto nel mezzo dei due tavoli presenti nell’obitorio, così che questi ne ricavavano soltanto un riflesso, preservandosi nell’ombra, quasi a voler mantenere quella scena in un’ottusa necessità di riserbo. Sui due tavoli mio cugino e un bambino, che non aveva più di quattro o cinque anni.

Per il gioco di luce, forse, quei corpi, nonostante l’estate, apparivano candidi nel loro biancore, corpi giovani e perfetti nelle proporzioni.
Mio cugino, in costume, i capelli bagnati, si mostrava in tutto il suo splendore di atleta, la muscolatura scolpita, il ventre all’indentro e il torace gonfio come a trattenere il fiato per un ultimo tuffo. Il volto immobile sembrava concentrato e quel corpo si restituiva a loro assolutamente inviolato: nessun segno di ferite, lividi o abrasioni, neanche tracce di sangue, lavate dal mare: insomma a vederlo li disteso non si riusciva a cogliere traccia dell’ incidente.
La posizione supina aveva creato l'artificio. Lo scafo della barca in effetti gli era passato sulla schiena. Lo aveva colpito e scavato solo da dietro, squarciandogli il dorso e la nuca proprio mentre cercava di saltare in acqua, e la morte, beffarda, era venuta così a fissare quell’ultimo guizzo atletico, lasciandogli intatto il suo bell’aspetto di sempre.
Il bambino era dal lato opposto, lineamenti angelici dentro una corona di riccioli biondi. Le sue forme composte e minute rimpicciolivano ancora di più a paragone con lo slancio e la potenza del corpo di Gigi. La stessa squallida immensità della sala e quel tavolo asettico dove era stato adagiato, accentuavano lo stridere di proporzioni. Per lui non c’era nessuno né si poteva capire come fosse morto.L’impressione era che stesse dormendo di un sonno tranquillo.

Mio padre osservava quella scena con la sensazione di trovarsi su un altro pianeta.Tutto era così irreale, impossibile credere che quei due corpi fossero freddi e probabilmente già irrigiditi, così che non osava oltrepassare la soglia, come se entrare li dentro avesse potuto rompere un incantesimo.
Si accorse solo dopo un pò che suo cognato aveva preso a muoversi ma, incredibilmente, invece che verso il figlio, quasi di slancio di era diretto dall’altra parte, verso il tavolo del bambino. Lo vide chinarsi su quel corpicino immobile e gli sembrò che cominciasse  delicatamente a carezzarlo, anzi pareva proprio tutto concentrato a sussurrargli qualcosa all’orecchio. Il senso delle parole, quasi fosse una cantilena, a mio padre risultava incomprensibile ma a poco a poco quel balbettio si spense e giunse il pianto a squassargli il respiro.   Poi con un filo di voce mio zio riprese a cantilenare e, allargate le braccia, strinse al petto quel figlio non suo e dolcemente, a ritmo lento, se lo cullò.