Me




 Il mio pungolo per la scrittura viene fuori li dove   pensieri e parole, nei discorsi, si fanno confusi e opachi.
Mi serve la pagina bianca ogni volta che  il dialogo si confonde per l'emotività, i segnali del volto, l'atteggiamento del corpo, la direzione di uno sguardo. 
Così oggi  racconto di me (non so fare molto altro) e decido di cominciare   da uno dei ricordi più antichi che riesco a ricostruire scavando nella memoria. Il mio primo saggio di danza
Avevo 4 anni e davanti   a me un pubblico che mi sembrava sterminato.
Quella volta io rimasi al di qua del sipario.
Ero una bambina dotata.
Ero brava.
Il mio corpo, totalmente sotto controllo; non c'era un gesto che non fosse compiuto e in accordo  con la musica che era come  mescolata al mio sangue.
Ma quel giorno rimasi oltre il sipario.
Così scelgo questo come inizio: c'è  il mondo che si ritrae, la musica che si spegne, il velluto pesante che assorbe il respiro ansimante per la fatica e prima che l’applauso deflagri a rompere quell’attimo di silenzio ,io  rimango sola.
 In effetti la danza come la musica erano l'unico modo di esprimere le tonalità affettive di cui ero capace.
Senza quelle non so come avrei potuto attraversare la mia infanzia.
Almeno c’era una via per dire cosa provassi e sentissi quando mi trovavo a contatto con questo mondo sorprendente e per lo più troppo grande per il mio sguardo, capace di percepire solo i particolari, che non ti danno il senso vero di ciò che vedi e però occupano tutta la visuale.
Tutto troppo grande insomma, uno stridere di proporzioni. A volerne calcolare le misure niente tornava e  non c’era verso di raccapezzarmi.
Era faticoso andare a scuola, faticoso avere a che fare con i miei fratelli, imbarazzante mio padre che mi rassicurava della mia intelligenza. Ma perchè me lo ripeteva sempre che ero intelligente?.
Sentivo la mancanza di un posto, il mio posto.
La già cronica difficoltà a dimostrare una qualche vicinanza con gli altri, anche solo  attraverso un gesto, mi  faceva timida e impacciata  e tutto il riverbero del mio desiderato legame con il mondo evaporava nel silenzio o nelle parole mai dette.
Così mi pareva ovvio  fare tagli, sottrarre, ridurre, scegliere insomma qualcuna tra le possibili ipotesi di esistenze, quelle che si adattavano appunto ad una grandezza per me  misurabile, e  pulsarle con violenza dentro  una realtà  parallela  e fantastica. Come avessi uno straordinario occhio mentale attento a scie e trame di sguardi e di respiri che per  giornate intere affollavano la mia immaginazione.
Cercavo  il mio posto, io, e invece questo cascare dentro laghi di possibilià mi faceva perdere la direzione.
La vita  mi pareva sempre un altrove.











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